Dottor Enrico Sbriglia, Provveditore PRAP Triveneto:

Be’, sento un po’ puzza di bruciato a dire il vero, dopo l’intervento del professor Cacciari e non potendo fingere di pensare che, in taluni contesti, in certe realtà, le carceri possano essere per davvero anche un inferno non posso negarne l’evenienza, le cronache di non poche parti del Mondo stanno a dimostrarlo, quindi non nascondo che un qualche forte imbarazzo come operatore penitenziario lo provo. Però penso anche che in Italia, proprio in questo momento, coloro che sono qui presenti, che sono una sicura rappresentazione dei militanti del sociale, che sono volontari veri, che sono persone comuni, che sono agenti di legalità, seppur non indossano l’uniforme, possono costituire un’altra diversificata chiave di lettura delle cose che facciamo tutti noi operatori penitenziari e di che cosa vogliamo sia fatto un sistema penitenziario che si imponga la coerenza con il dettato costituzionale.

Quando il coraggioso presidente della cooperativa sociale Il Cerchio, il signor TREVISAN, l’amico Gianni, alcuni mesi fa mi parlava di questo evento, mi colpiva, l’ho ammetto, il suo entusiasmo giovanile, il suo essere e continuare ad immaginare e prospettare ulteriori traguardi che con la sua impresa sociale, pur in un terreno per l’appunto infernale, minato, scomodo, come quello delle carceri, intendeva proporre, inventare e, mi piace anche dire, sognare. Ciò mi induceva, e ancora mi induce, a ritenere che poi dopotutto il nostro paese non sia per davvero d’abbandonare, non sia proprio in declino, che non ci sia un sorta di destino ineluttabile che ci travolge per sempre, che non è vero che siamo un paese di sconfitti, o come qualcuno disse tempo fa, di bamboccioni. Ma al contrario, che le nostre Comunità continuano ad essere, invece, popolate da eroi senza divise, che il nostro è pure un Paese di normale, comune, e proprio per questo straordinaria, perché capace di guardare le cose con lo sguardo lungo e compassionevole, perché capace di dare senso, anima, consapevolezza della responsabilità sociale nel proporre e fare anche impresa.

Ho avuto modo di vedere da vicino il lavoro fatto da Gianni Trevisan e dai suoi collaboratori, dall’attuale amministratore delegato Giorgio MAINOLDI, e da tanti altri volontari di speranza agita. Di ottimisti del buonsenso, della ragionevolezza, di pratici della generosità sociale e non invece di quella che a volte chiamiamo carità pelosa e assistenza anche invadente, untuosa. Gente, quella della Cooperativa Il Cerchio, che investe nel cuore, nelle teste, nelle braccia, delle persone detenute, proponendo a queste la possibilità concreta di provare a rimettersi in gioco, però rispettando le regole. Le regole del vivere, del vivere insieme lavorando, le regole della legalità. Quello che viviamo oggi è uno dei momenti più difficili per il mondo nel suo complesso, per l’Europa stessa, percepita o recentemente fatta percepire come un litigioso condominio, piuttosto che come compendio di comunità. Ma è anche un momento difficile per le carceri, come diceva prima la collega, e per gli stessi operatori penitenziari. Compendio di visioni immaginarie e di luoghi comuni, le frettolose analisi sul carcere e sui costi sociali ed economici dello stesso aggravano lo stato delle cose e spingono, a volte, troppe, anche la politica di pancia e di piedi, se non anche i rappresentanti delle istituzioni, ad esprimere ricette e teorie che quando non sono un accanimento terapeutico verso un corpo già sofferente, possono apparire quasi una forma di tortura della ragione, dell’intelletto, del buonsenso e perfino della democrazia di un paese che si consideri per davvero civile.

Devo fare ricorso alla ricorrenza del 28 novembre scorso,  in cui si celebravano gli oltre 220 anni della scomparsa di Cesare Beccaria, ove nel corso di un intervento ebbi ad affermare che invece di vedere il nostro paese primeggiare nel rispetto dei diritti umani, l’Italia stava subendo l’onta dei giudizi di condanna da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Allora non comprendere come urga davvero cambiare rotta e che solo operando insieme alle realtà del sociale, di quello che definiamo il terzo settore, della democrazia diffusa attraverso i propri organismi di cittadinanza attiva, sarà possibile cambiare lo stato delle cose, significa essere civicamente orbi.

Che un’altra visione del mondo delle carceri, e non banalizzo, infatti la vediamo attraverso le biciclette, i vestiti, tutto ciò che la cooperativa, agendo sulle mani e sulle menti di quanti hanno commesso reati, riesce a realizzare: essa sta mostrando fatti e non parole. Sono necessari, lo si diceva prima, atti di coraggio legislativo, di coraggio amministrativo, di coraggio operativo. Può esistere una finanza, una economia, una produzione diversa? Può esserci un’economia etica? È fatto pedagogico, educativo, di rilevanza sociale, la circostanza che il mondo carcerario si mostri non ostile ma, al contrario, accogliente, lusinghiero, adescatore, di quanti rappresentino ad esempio l’espressione sociale di un’economia etica e cooperativistica? L’economia, il fare impresa, il produrre ricchezza, può o non può essere socializzato anche con le fasce del disagio della popolazione o al contrario è materia e luogo esclusivo di ricchi, di potenti o, evocando Edoardo Bennato, di laureati, per poter diventare direttori generali ? Ci può essere proprio nelle carceri la riscoperta di una imprenditoria utile, che sia nel contempo improntata alla tutela dell’ambiente e dei diritti di tutti e non soltanto un recinto di privilegio per pochi? Può trovare il diritto di cittadinanza, proprio nelle carceri, un modo di fare economia che pur contraria alle logiche dello sfruttamento e della speculazione, pur mantenendo un forte radicamento nell’economia reale, si imponga e pratichi il metodo della trasparenza e della partecipazione dei soci alle scelte strategiche dell’impresa sociale?

Ecco, io credo che l’esperienza dei 20 anni della Cooperativa  Il Cerchio sembri andare verso questa direzione e quindi, come Provveditore regionale della Amministrazione penitenziaria per il Triveneto, anzi fatemi aggiungere una cosa più importante, come operatore penitenziario, non posso che ringraziare il sempreverde Trevisan. Attenzione, un verde che non sa di valchirie e di Thor, ma sa di speranza e non di disperati senza permesso di soggiorno, il quale insieme anche ad altre espressioni del mondo della cooperazione sociale, grazie anche al coraggio di tanti altri operatori penitenziari, e in primo luogo, prima è stato detto in maniera molto precisa, grazie ai parafulmini d’ordinanza, quelli del servizio permanente effettivo, e cioè i direttori, anzi nel caso nostro le direttrici, è riuscito e riesce a fare quel che vediamo. Perché questa realtà dell’esecuzione penale di Venezia ha la fortuna di essere governata, mi piacerebbe dire, da Atena, Pallade, Minerva, una giustizia diversa, una giustizia al femminile, di dirigenti penitenziarie che hanno consentito, con la loro intelligenza e sensibilità, di esprimere umanità e dare senso a quel luogo che continuiamo a chiamare carcere. Se quanto è stato fatto alla Casa Reclusione delle Donne, ed è cosa che ormai appartiene alla leggenda perché talvolta accendo il televisore dico, ma io quel posto lo conosco, poi guardo bene e individuo che si tratta del Carcere di Venezia e della Casa Reclusione Donne, di ciò che in questo Istituto è stato fatto, così come anche vedo, confuso tra le persone, l’amico rigoroso Nicola Boscoletto, e penso alla realtà di Padova. Riconosco ormai l’Italia attraverso le carceri, o meglio un certo tipo di carceri. Ebbene, se questo accade, e sta accadendo anche presso quella che era la Sat di Venezia, oggi, infatti, grazie al lavoro fatto da Imma Mannarella vi sono ogni giorno delle persone detenute, ammesse al lavoro esterno, che stanno riportando in luce quella che era una realtà che stavamo per certi versi nascondendo, abbandonando, è perché ci sono persone che ancora credono, sia in termini laici che religiosi, non importa. La SAT è una struttura bellissima che potrebbe diventare anch’essa un punto di riferimento forte per questo territorio e per il nostro mondo penitenziario. Mi avvio alla conclusione, e non me ne voglia il Sottosegretario On. MIGLIORE, che so essere molto sensibile ai temi del carcere e del lavoro, al di là delle deleghe affidategli, se per un attimo abbandono l’abito istituzionale ed esprimo una mia personalissima convizione: io come Provveditore ho tanti difetti, uno in particolare: continuo a sentirmi l’operatore penitenziario di sempre e non sono un imprenditore, non sono un peritus-peritorum, non so fare tante cose, anzi sono convinto che il mondo moderno si orienti proprio sulla logica della specializzazione e della super specializzazione. Per questo ascolto con attenzione quanti, anche nella mia amministrazione, hanno competenze “altre” oltre quelle giuridiche, sociologiche, criminologiche ed umanistiche, cerco di comprenderle ed assimilarle; quando però sono alle strette, e mi si chiede di organizzare il carcere come un’azienda, allora senza indugio mi rivolgo a quanti lo sanno fare per mestiere “primo”. Che debba saper fare le cose del fabbro, dell’elettricista, dell’idraulico, che debba sapere forse anche di animali da cortile, ci provo. Giuro solennemente che ci provo, però preferirei anche che non si dimenticasse che la mia professionalità deve essere anzitutto dispiegata su altre cose, sul rispetto dei diritti umani, sulla lotta alle discriminazioni, sull’obbligo di realizzare il carcere come una casa di vetro, seppure blindato, sulla forza della ragione e non sulla ragione della forza, lasciando ad altri, agli specialisti, agli artigiani, ai fabbri, agli esperti agronomi, alle imprese e alle cooperative, quanto di imprenditoriale si possa fare e si debba fare in carcere, limitandomi, e non sarebbe una cosa di poco, ad esercitare una puntale, costante e intelligente vigilanza su quanto mani esperte, persone specializzate, realizzano come lavoro all’interno delle carceri. A motivo dei miei limiti, il controllo e non la gestione diretta mi parrebbe il modello preferibile anche al fine di verificare l’effettiva, concreta e reale economicità di fare un’attività imprenditoriale, oltre che per evitare il rischio di confondere la ricchezza pubblica come un pozzo senza fondo dove si possa sempre sperimentare. Se mi piacciono gli esperimenti, sarebbe giusto che li facessi con le mie ricchezze (seppure sono ben poca cosa) e non con quelle della collettività.

Scusatemi, ho detto troppo, ho detto forse male, però spero nella vostra comprensione, grazie.

Enrico SBRIGLIA

Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il TRIVENETO