Dottoressa Gabriella Straffi, già Direttrice Istituti Penitenziari Venezia:

Grazie per questa introduzione che mi commuove, grazie soprattutto alle tante persone che sono intervenute e che mi hanno molto aiutata e supportata e sopportata anche, parlo soprattutto dei miei più stretti collaboratori.

Oggi celebriamo i vent’anni del Cerchio e non posso non pensare ai miei primi anni.

Sono entrata come vice direttore nel 1984, prima della legge Gozzini, era un mondo completamente diverso, ho vissuto i periodi in cui si entrava in carcere ma mentre magari verso le quattro, le cinque del pomeriggio,  stavo per uscire, c’era qualcuno che arrivava e mi diceva: “Dottoressa, c’è una manifestazione ai cortili, i detenuti o le detenute non vogliono rientrare”, oppure qualche detenuto era salito sui tetti, ecco, questo accadeva spesso alla Casa di Lavoro.

Era il periodo delle grandi proteste, c’era stato, sì, il nuovo ordinamento penitenziario, ma gli anni Ottanta ne avevano bloccato in pratica l’applicazione, di permessi premio non si parlava neppure, c’erano “i politici e le politiche”, soprattutto le politiche al Femminile.

Io da una parte ero un po’ spaventata e come rappresentante dell’Istituzione cercavo di tenerle a freno o di fermare queste proteste, però le ammiravo anche, mi dicevo: “Accidenti! Hanno proprio ragione, è giusto che protestino!”, il carcere era proprio un brutto posto, parlo di Santa Maria Maggiore perché la struttura era di certo tra le peggiori d’Italia, ma era brutto anche il Femminile, non tanto per la struttura in sé, anche se ce ne sono sicuramente di migliori, ma per l’aria che si respirava.

E non perché il volontariato era solo un volontariato cattolico, quello non è un problema, ma i volontari erano veramente pochi, ce n’erano due, tre al massimo.

 Una cosa che da giovane funzionaria mi aveva molto colpita erano proprio i volti, dice bene il presidente Pavarin, i volti dei detenuti, delle detenute soprattutto, ti dicono tutto quando li incontri, quando li incontri capisci subito se stanno bene, se stanno male, quanti anni di carcere hanno fatto, e negli anni Ottanta le donne in particolare riuscivi a capire, per come si vestivano, per come si presentavano, quanti anni avevano trascorso dentro.

La legge Gozzini, oggi siamo in fase di ricordi e non possiamo non ricordare Alessandro Margara, recentemente scomparso, grande magistrato di sorveglianza, grande presidente, avrebbe potuto essere anche un grande capo del Dipartimento, ma forse avevano paura di lui, dopo poco è tornato a fare il magistrato di sorveglianza, un appassionato del mestiere, mi piacerebbe pensare che anch’io lo sia stata, ma certamente non come lui.  La legge Gozzini dicevo ha cambiato il volto del carcere, ha aperto il carcere, un’altra persona illuminata è stato l’allora capo del Dipartimento, Nicolò Amato, ricordo che la sua parola “rendere trasparente il carcere” era uno slogan che mi piaceva tanto, era fondamentale, e poi qui a Venezia c’erano delle opportunità, un’amministrazione comunale e amministrazioni pubbliche assai sensibili al problema del carcere, e il carcere inserito nella città, in particolare il Femminile in Giudecca, questi erano presupposti fondamentali per lavorare bene.

A un certo punto entra il dottor Levorato, entra anche Trevisan, e quindi un aggancio ancora più diretto con le amministrazioni.

Di Levorato voglio soltanto ricordare quello che mi diceva: “Osi, dottoressa.”

Io osavo e non gli andava mai bene, cioè qualsiasi cosa io facessi, lui voleva qualcosa in più, e io mi arrabbiavo con lui: “Ma cosa vuole? abbiamo già fatto questo, quest’altro.”

 Però poi ci ripensavo e capivo che aveva ragione lui, non era sufficiente, la sfida era troppo grande, ho avuto modo di lavorare soltanto tre mesi a Parma, verso la fine degli anni Ottanta, e a Parma erano molto molto più avanti di noi, c’erano cooperative che erano nate grazie a delle persone che avevano lavorato con Basaglia, per cui avevano una visione del disagio sociale molto all’avanguardia, avevano aperto attività all’esterno particolarmente interessanti, e soprattutto lavoravano per diminuire il disagio delle persone più svantaggiate in carcere, che erano le persone con problemi psichiatrici e i tossicodipendenti.

Dissi a Levorato anche di incontrare queste realtà, che poteva essere sicuramente interessante trasferire questo modello a Venezia, e così iniziò questa avventura di aprire laboratori all’interno del carcere a Santa Maria Maggiore con l’ambizione non solo di portare il lavoro all’interno del carcere e di dare ai detenuti la possibilità di uscire dalla cella, l’alternativa alla cella, Levorato diceva: “Si parla delle misure alternative, ma la vera sfida è l’alternativa alla cella”, questo passaggio era fondamentale, ma era importante anche creare un mercato all’esterno che fosse interessato a quello che veniva prodotto all’interno del carcere; e lì è stata la grande sfida. Sono nati i laboratori, prima si vendeva soltanto su piccoli spazi che ci davano durante il periodo buio della Fenice, quando ci fu l’incendio la cooperativa Rio Terà dei Pensieri raccolse dei fondi, mi pare di ricordare, poi si aprì un chiosco davanti alla Fenice per vendere i prodotti, insomma, una presenza sempre costante del carcere e un legame con quello che avveniva in città.

 Questo legame fondamentale era un modo per non vedere più le facce segnate dal carcere.

 Allora, ritorniamo ai volti; a un certo punto l’immagine delle persone dentro, soprattutto delle donne, cambiava completamente, erano donne che avevano cura della propria persona, donne che curavano l’acconciatura, facevano acquisti insomma ti davano l’idea di quanto ci tenessero a stare al passo coi tempi.

Una dimensione terrificante delle persone, soprattutto di quelle che hanno delle pene molto lunghe, è il trascorrere del tempo senza capire che cosa avviene fuori, ma l’apertura del carcere, l’ingresso di tanti volontari, l’entrata di persone nuove, nuovi lavori che ti consentono, mi riferisco in particolare alla cosmetica, all’orto, alla sartoria, che ti consentono di immaginare come il mondo esterno sta cambiando, perché tu devi essere al passo con i tempi quando porti fuori un prodotto, tutto questo ti aiuta a dimenticare che per te gli anni stanno passando e trascorrono sempre in uno stesso luogo.

Quindi il lavoro come alternativa alla cella, e il lavoro soprattutto come riscatto personale, il lavoro che non ti fa sentire tanto diversa dagli altri, il lavoro come consolazione.

Accanto al lavoro non può però non essere considerato un altro aspetto fondamentale, che è quello della possibilità che una persona abbia di stare un po’ sola con se stessa.

Permettetemi una venatura un po’ polemica, negli ultimi anni è come se io mi fossi sentita un po’ sganciata, forse sono troppo vecchia, penso, magari non riesco più a capire quali sono le indicazioni che mi vengono date.

Sono arrivate dal Dipartimento una serie di circolari che è come se avessero voluto far diventare gli istituti di pena un po’ tutti identici, tutto scaturisce da una continua richiesta di informazioni che diventano freddi dati statistici che dovevo dare e che io detesto.

 L’ultima circolare che mi ha fatto un po’ sorridere riguarda i suicidi in carcere.

 Ora, il suicidio in carcere purtroppo c’è sempre stato e continuerà a esserci, c’è un nesso molto stretto tra carcere, suicidi e atti di autolesionismo, ma non si può pensare di dire: “Abbiamo osservato sul piano statistico che capita soprattutto quando una persona sta sola in cella, o in stanza”, per cui va evitato che i detenuti stiano soli in cella, ma dico, ma come, quando parliamo di umanizzazione della pena pensiamo alle carceri del Nord Europa dove ognuno ha una stanza singola, che mi pare che sia il massimo, anzi, quello che si dovrebbe dare, lo spazio vitale, non sono soltanto i famosi tre metri, ma devono essere almeno sette metri quadrati, e possibilmente per una persona che fa il primo ingresso in carcere ci vorrebbe la stanza singola. Quindi mettere in relazione stanza singola e rischio di suicidio mi sembra assurdo, non so, permettetemi una citazione di Primo Levi, in cui dice, mi pare di ricordare, che “a posteriori ogni suicidio ammette una nebulosa di spiegazioni”, non si possono accostare alcune situazioni proprie del carcere a dati numerici e statistici, il carcere è un’altra cosa, il carcere non è un prodotto, il carcere è umanità.

E ancora, i dirigenti, io sono entrata come direttore del carcere, e quando appunto il dottor Levorato mi diceva: “Osi”, è perché lui aveva la consapevolezza che il direttore del carcere e il comandante potevano osare, potevano fare, e potevano raggiungere dei risultati.

 Abbiamo aperto laboratori, abbiamo fatto entrare le cooperative, abbiamo aperto il carcere a tante persone, artisti, attori, musicisti, tantissime belle esperienze: si poteva fare.

 Non dico che oggi non lo si possa fare, però nonostante il direttore sia diventato dirigente è rimasto un dirigente fanciullo, non è cresciuto abbastanza.

Tra le riforme che a mio modesto parere, ormai sono fuori dall’Amministrazione, si dovrebbero fare, una sarebbe proprio quella di far crescere, far diventare adulto il dirigente, e non soltanto quando parliamo di responsabilità, perché lì adulto lo è di sicuro, ma sotto l’aspetto dell’autonomia decisionale.

Per esempio negli ultimi tempi, mi sembrava pressoché impossibile che non potessi essere io a decidere da sola come gestire la comunicazione con l’esterno. Se io dovevo fare entrare un giornalista, ok, occorrono le autorizzazioni, va bene così, ma che dovessi dare le spiegazioni su come e perché, perché è entrato e per quale motivo, questa grande paura che il dirigente non sia in grado di dare la giusta indicazione, non la capisco proprio.

Non so cosa ne pensino anche gli altri dirigenti, ma per le quotidiane incombenze decisionali che il direttore deve affrontare all’interno di un carcere, questo sembra veramente l’aspetto minimo, per cui mi domando perché non lasciare più spazio, perché non farli crescere?

Perché soltanto in questo modo uno può essere artefice del cambiamento, se io fossi stata limitata nella mia autonomia, io quell’osare di Levorato non l’avrei ascoltato, Trevisan era un po’ più timido, però insomma anche lui spingeva, Levorato era più irruente, forse il professor Cacciari se lo ricorda quando pubblicamente mi metteva in difficoltà rispetto a questo.

 Ecco, mi ricordo a Santa Maria Maggiore, c’è anche la chiesa di Santa Maggiore, è divisa soltanto dal muro di cinta, e lui, Levorato dico, in un convegno come questo, ma con tanti giornalisti a un certo punto mi fa : “Be’, dottoressa Straffi, basta fare un bel buco nel muro di cinta, si passa dall’altra parte e abbiamo risolto il problema degli spazi a Santa Maria Maggiore.” E io: “No, questa cosa non si può fare” e poi il giorno dopo sui giornali, “Levorato propone questo, la Straffi dice di no”.

Insomma, mi pareva abbastanza ovvio, però poi ripensandoci penso: “Ma magari si poteva anche fare, perché no?”.

Forse adesso avrei trovato il modo di farlo, per questo, dico, bene essere spinti ma occorre anche rassicurare chi deve decidere sulla sua autonomia, supportarlo, non spingerlo verso il basso e dirgli: “No guarda che devi chiedere l’autorizzazione”.

Una delle ultime cose che ho fatto senza chiedere l’autorizzazione, è stata quella di partecipare a un concorso per avere un finanziamento per l’otto per mille, qui vedo qualche rappresentante dell’allora Magistrato alle Acque, oggi Provveditorato alle Opere Pubbliche, insomma questo progetto lo abbiamo vinto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ci ha dato un finanziamento di ottocentomila euro, però, non è che mi aspettassi un “grazie” perché non ne ho mai avuti e non ha importanza, ma quello che mi ha fatto riflettere è che quando ho cominciato a chiedere: “Be’ ho fatto questo e abbiamo vinto”,  uno doveva essere contento, ti arrivano ottocentomila euro per sistemare una parte del carcere, e invece dall’altra parte ti senti dire: “Ma hai chiesto l’autorizzazione? Noi non ne sappiamo nulla, e adesso come si fa a riscuotere questa somma?”.

 Credo che ancora debbano risolverla sta faccenda, allora questa modalità non va bene, deve essere cambiata, ogni Istituto deve avere un suo dirigente; ecco, il comandante di reparto, altra figura fondamentale, lui è proprio ancora un bambino, il dirigente è fanciullo, il comandante è un bambino, queste persone devono crescere e bisogna farle lavorare, rassicurandole, non spaventandole.

Chiudo la polemica e ritorno al Cerchio.

Avete del materiale, se leggete tutto, anno per anno, quello che è stato fatto, devo dire che sono stati proprio bravi, e che è stato bravo anche il personale degli Istituti che ha sempre risposto, non sempre è facile sapete, ogni attività comporta un grosso lavoro all’interno del carcere, però mi piace pensare che questo lavoro sia stato sempre fatto nella consapevolezza che era importante farlo.

 Ringrazio Trevisan per le belle parole che mi ha rivolto, ringrazio il presidente Pavarin, e ringrazio questa splendida città.

E’ molto bello quando si passeggia il mercoledì o il giovedì, sulla fondamenta davanti al Femminile e si vede quel banchetto degli ortaggi, io non credo che vengano a comprare solo perché le verdure sono buone, sono convinta che le persone vengano in Giudecca a comprare i prodotti perché questo incontro è bello.

 Ed è bello incontrare le detenute che vendono questi prodotti, è bella questa vicinanza, e questa è la sintesi di tutto, il carcere che è non nella città, ma che fa parte della città, una parte integrante.

Quindi grazie a tutti voi.