Annamaria Marin, presidente della Camera Penale Veneziana:

Buongiorno a tutti e a tutte, sono felice di questa giornata e ringrazio Il Cerchio. Voglio attenermi ai saluti nel mio intervento e potrei semplicemente dire al Cerchio “grazie di esistere”. Ma voglio dire qualcosa in più. Non come avvocato soltanto, ma soprattutto come cittadina. Una cittadina di Venezia che ha avuto modo di apprezzare la storia della cooperativa Il Cerchio in questi anni come una storia importante per la nostra città. Perché la questione del carcere non è una questione d’interesse solo per i detenuti e  per i giuristi: interrogarsi sul senso della pena non è una questione che deve riguardare solo le istituzioni, magistrati di sorveglianza e avvocati, ma è questione di assoluto rilievo che deve interrogarci tutti. Ho sentito parlare della “seconda fase” del Cerchio, che credo non potrà che essere in continuazione con la “prima fase” dei 20 anni trascorsi. E agli amici del Cerchio, a Gianni per la confidenza e l’affetto che tanti anni di relazione mi consentono di avere nei suoi confronti, vorrei proporre due riflessioni per sottolineare le caratteristiche che secondo me Il Cerchio dovrà continuare ad avere in questi prossimi 20 anni, pur affrontando le nuove sfide, i tempi di oggi, con gli  strumenti che la nostra epoca richiede. E la prima riflessione è questa: non dobbiamo dimenticarci che in carcere quasi tutti, per non dire tutti, i soggetti reclusi, sono persone che dalla vita hanno avuto poco o niente. Non dobbiamo dimenticarci di questo, perché questo significa che restituire a loro un’opportunità di lavoro significa restituire a loro quella dignità e quella prospettiva di vita che la società a loro ha negato. E quindi l’interesse all’inclusione sociale a partire dal lavoro,  da un lavoro regolato, da un lavoro retribuito, da un lavoro che deve rispondere così per chi ha commesso reati così come per i soggetti liberi, alle medesime regole che il contesto sociale condivide, deve essere un punto di orgoglio che nella proposta futura del Cerchio io sono convinta  debba rimanere. Dare una prospettiva di inclusione secondo principi condivisi di eguaglianza, di rispetto della dignità di tutti gli individui ai detenuti che, ripeto, sono gli “ultimi”: così sono stati spesso definiti e chi, come noi, frequenta il carcere, si rende conto di questa tragica realtà.

La seconda riflessione che voglio fare è sulla necessità per il Cerchio di continuare  ad essere un punto di riferimento per battere la corsa alla cd. certezza della pena, lo slogan di  moda che viene condiviso quando si parla di carcere, soprattutto dai politici e purtroppo anche da molti amministratori locali. Non c’è niente di più sbagliato di arroccarsi sul concetto di certezza della pena. La pena deve avere un senso! Sul senso della pena incide l’attività di lavoro. Perché la pena solo come retribuzione, come privazione della libertà personale non ha nessun senso se non un’afflizione fine  a  se  stessa, che non può restituire cittadini diversi alla  società. La mera  afflizione è un tempo trascorso inutilmente, senza quell’impegno per  la costruzione di persone che, grazie alla restituzione della dignità, grazie alla possibilità di una progettualità di vita, possano effettivamente ritornare a essere soggetti coinvolti in maniera corretta nel nostro contesto sociale. E’ quindi importante far capire che la realtà del Cerchio a Venezia, come la realtà della Cooperativa Giotto a Padova, visto che c’è anche il dottor Boscoletto qui presente, sono assolutamente importanti per far capire ai nostri territori, ai nostri amministratori e alla cittadinanza l’importanza di una pena che abbia un senso, di un carcere che abbia un senso, di un lavoro che vivifichi il senso della pena, altrimenti non ne andiamo fuori da un tema che deve coinvolgerci tutti e che ha bisogno di testimonial importanti come la cooperativa il Cerchio.